Mistero dell’omicidio di Antonella Di Veroli: richiesta di riapertura del caso dopo 30 anni
Dopo 30 anni, i legali chiedono la riapertura del caso di Antonella Di Veroli, commercialista assassinata a Roma nel 1994. Indagini su reperti non analizzati e testimonianze da riesaminare.
Trent’anni dopo l’omicidio di Antonella Di Veroli, i legali della sorella della vittima hanno depositato in procura a Roma un’istanza per la riapertura del caso irrisolto. Il corpo della commercialista di 47 anni, assassinata a colpi di pistola, è stato scoperto il 10 aprile 1994 in un armadio le cui porte erano state sigillate con del silicone all’interno della camera da letto della sua abitazione, in via Federico De Roberto, nel quartiere romano di Talenti. Da allora, per il delitto non è mai stato trovato un colpevole.
A scoprire il cadavere furono i parenti della donna accompagnati da un’amica della vittima e dall’ex socio Umberto Nardinocchi. Secondo quanto riporta l’agenzia LaPresse, il legale della famiglia, Giulio Vasaturo, ha presentato alla procura di Roma l’istanza di riapertura delle indagini: l’obiettivo è quello di fare chiarezza sulle testimonianze dei vicini e alcuni reperti non analizzati, sfruttando le tecnologie che negli anni hanno fatto passi da gigante.
Il corpo di Antonella Di Veroli era in quell’armadio con le ante sigillate, ancora con il pigiama addosso, in posizione rannicchiata sul fianco. Aveva un foro in testa e un’ogiva tra i capelli. Sul letto, il lenzuolo e il coprimaterasso erano insanguinati, uno dei cuscini aveva fori provocati dai proiettili. Sul pavimento però era stato ritrovato solo un bossolo di piccolo calibro. Gli accertamenti tecnici sul corpo della donna dimostrarono che la morte era stata provocata da asfissia causata dalla busta di plastica che aveva in testa: i proiettili l’avevano solo stordita.
Le indagini all’epoca si concentrarono su due uomini che avevano avuto una relazione con la vittima: il primo sospettato fu Nardinocchi, il collega più anziano della vittima (prosciolto al termine dell’istruttoria). Il secondo fu Vittorio Biffani, un fotografo morto nel 2003 con il quale la donna aveva avuto poco prima una relazione interrotta bruscamente e al quale aveva prestato 42 milioni, che non erano mai stati restituiti. Resta in piedi la pista di un terzo uomo, resa concreta dai numerosi indizi sottovalutati nella prima fase delle indagini.
Biffani venne rinviato a giudizio e processato. Il processo iniziò nel 1995 e nel 1997 arrivò la sentenza di assoluzione, confermata in appello e dalla Cassazione nel 2003. A scagionare l’uomo dall’accusa fu anche un’impronta trovata sull’armadio appartenente a una terza persona mai identificata e un errore nelle analisi del guanto di paraffina.
Resta quindi sconosciuta l’identità del killer. Nonostante un tentativo di riaprire il caso nel 2011, non si sono avuti mai ulteriori sviluppi. Ora, dopo trent’anni, è stata chiesta la riapertura delle indagini.
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