Arabia Saudita presiede commissione ONU per i diritti delle donne
L'Arabia Saudita presiede la commissione ONU per l'uguaglianza di genere, suscitando critiche per i ritardi sui diritti delle donne. Controversie sulle politiche discriminatorie e la violenza di genere nel Paese.
L’Arabia Saudita è stata scelta per presiedere la commissione delle Nazioni Unite che dovrebbe promuovere l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne in tutto il mondo. La notizia ha generato scalpore, soprattutto tra i gruppi per i diritti umani a causa dei gravi ritardi del Paese in materia di diritti delle donne.
Riyad sta tentando in tutti i modi di farsi un lifting in termini di immagine globale, ma dati e report raccontano tutt’altro: mogli obbligate ad obbedire ai mariti, attiviste incarcerate, violenze sulle donne impunite.
Nessuna opposizione all’Onu
Il voto è avvenuto per acclamazione il 27 marzo a New York durante la riunione della Commissione sullo status delle donne (Csw) presso le Nazioni Unite. La nomina è spettata all’ambasciatore saudita Abdulaziz Alwasil, eletto presidente della Csw. In realtà non c’erano candidati rivali, ma nessuno in aula ha sollevato eccezioni al momento della proposta.
Il passaggio di consegne è arrivato quando il presidente uscente, l’inviato filippino all’Onu, Antonio Manuel Lagdameo, ha chiesto ai 45 diplomatici dell’Asia-Pacifico se avessero obiezioni. Dato che il silenzio è calato in aula, il diplomatico ha confermato la nomina.
Le Filippine avrebbero dovuto conservare la presidenza per due anni, ma altri membri del gruppo asiatico hanno fatto pressioni affinché terminasse in anticipo il suo mandato, trasferendo la carica a un altro Paese dopo un anno.
Le attese erano rivolte al Bangladesh, ma l’Arabia Saudita è intervenuta nel processo, facendo pressioni per ottenere la presidenza, secondo quanto hanno riferito fonti diplomatiche.
La mossa rientra nei numerosi tentativi da parte dei reggenti sauditi di mettere a lucido l’immagine del regno: più limpida e occidentalizzata. Quest’estate ad esempio i sauditi hanno fatto incetta di campioni (e non) dalle squadre di calcio europee, strapagando i giocatori (più o meno giovani) per dare prestigio alla Saudi Pro League. Un’operazione riuscita solo a metà. Ad ottobre si sono poi assicurati l’organizzazione dei mondiali nel 2034.
Mentre il footwashing rimane ancorato a questioni di business e criticato solo dalle curve e dagli ultimi difensori del calcio romantico, ergersi a paladini dei diritti delle donne è più complicato.
La legge che obbliga le donne ad obbedire al marito
Secondo le organizzazioni che si occupano di diritti umani, è paradossale che a guidare gli Stati in materia di eguaglianza di genere sia un Paese in cui è ancora così netto il divario tra i diritti degli uomini e quelli delle donne.
Come sottolineato da Amnesty International, la presidenza dell’Arabia Saudita coinciderà col 30° anniversario della dichiarazione di Pechino, che rimane la principale risoluzione delle Nazioni Unite in materia di emancipazione e miglioramento della condizione delle donne a livello globale.
Il record abissale dell’Arabia Saudita quando si tratta di proteggere e promuovere i diritti delle donne punta i riflettori sul vasto abisso tra la realtà vissuta per le donne e le ragazze in Arabia Saudita e le aspirazioni della Commissione, ha commentato in una nota Sherine Tadros, a capo dell’ufficio di New York di Amnesty International.
Rispetto alle critiche i funzionari sauditi hanno subito fatto riferimento alla legge sullo status personale approvata nel 2022, indicandola come prova del progresso nei diritti delle donne.
Secondo Amnesty questa norma in realtà, rafforza la discriminazione di genere in ogni aspetto della vita familiare, dal matrimonio, al divorzio, alla custodia dei figli e all’eredità, e non riesce a proteggere le donne dalla violenza di genere.
La legge prevede che una donna debba ottenere il permesso di un tutore maschio per sposarsi. Stabilisce inoltre che la moglie debba obbedire al marito in maniera ragionevole, mentre per ottenere il sostegno finanziario da parte del consorte, la donna deve dimostrare obbedienza.
Il rifiuto di avere rapporti sessuali con il marito, di viaggiare col consorte e di vivere nella casa coniugale necessita di una scusa legittima, altrimenti viene giustificata la revoca del sostegno finanziario previsto dalla legge.
Attiviste saudite incarcerate
In un rapporto pubblicato questa settimana, gli esperti di Amnesty hanno messo in evidenza anche come una bozza trapelata del primo codice penale scritto dell’Arabia Saudita avrebbe ulteriori conseguenze catastrofiche per le donne nel Paese.
L’Arabia Saudita non può dimostrare il suo impegno per i diritti delle donne semplicemente assicurando un ruolo di leadership nella Commissione. Deve dimostrare il suo impegno attraverso azioni concrete a livello nazionale, anche abolire il sistema di tutela maschile e abrogare le disposizioni dalle sue leggi che discriminano le donne, ha sottolineato Amnesty.
Chiede inoltre alle autorità saudite di porre fine alla repressione della libertà di espressione e di rilasciare immediatamente tutti coloro che sono ingiustamente detenuti per aver espresso le loro opinioni, tra cui esprimere sostegno ai diritti delle donne.
Sulla stessa linea si è posizionata anche Human Rights Watch. Nel suo ultimo report, sottolinea che la legge sullo status personale include disposizioni che facilitano la violenza domestica e gli abusi sessuali nel matrimonio.
L’organizzazione evidenzia anche che le autorità locali hanno impedito alle attiviste saudite per i diritti delle donne di fornire il proprio contributo nel redigere le norme, in quanto il disegno di legge non è stato reso pubblico prima che fosse adottato.
Human Rights Watch ha ricordato che negli ultimi anni le attiviste hanno subito arresti arbitrari, torture e divieti di viaggio.
Un Paese che incarcera le donne semplicemente perché difendono i propri diritti non ha alcun diritto di essere il volto del principale forum delle Nazioni Unite per i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere, ha dichiarato al Guardian Louis Charbonneau, direttore di Human Rights Watch presso l’Onu.
Charbonneau ha sottolineato anche il silenzio generalizzato degli altri Stati rispetto alla nomina ottenuta dall’Arabia Saudita. Seppur con argomenti diversi, Riyad ha saputo mettere a tacere i diplomatici dell’Onu oltre che il dissenso delle donne.